Prisma Studio Opening

Prisma Studio Opening

Prima ancora che l’aspetti. Formule d’impianto dell’immagine contemporanea.

Testo di Marcello Carriero

Paolo Angelosanto, Eleonora Chiesa, Fumatto, Maryangel Garcia, Viktorija Gedraityte, Franca Giovanrosa, Francesco Giovani, Pietro Millefiore, Massimo Palazzi, Susanna Dirty Toy, Alberto Trucco

Com. stampa : Sabato 13 Ottobre a Genova nell’ambito della giornata nazionale del contemporaneo apre lo spazio di ricerca PRISMA Studio.

“La scelta di presentarci alla città con un evento collettivo in cui video, fotografia, disegno, serigrafia e arti plastiche si incontrano non è casuale, proprio in questo particolare momento in cui l’arte contemporanea a Genova fa sempre più fatica a trovare spazi pubblici e luoghi dedicati alla cultura. Prisma Studio situato nel cuore del centro storico è uno spazio gestito da un collettivo di artisti e curatori. Il testo di presentazione dello spazio è stato affidato a Marcello Carriero docente all’Accademia di Belle Arti di Palermo: Genova e Palermo, due città di mare e due città multietniche per tradizione ai lati apposti della penisola. Forse anche questo non è casuale“.

Prisma Studio Opening time laps video -music by Modus, Genova 13.10.2018

Prima ancora che l’aspetti

Quando Eleonora Chiesa e Viktorjia Gedraityte mi hanno chiesto di presentare questo progetto al pubblico con uno scritto mi sono chiesto, innanzi tutto, quale fosse la ragione di dar vita a: “Uno Spazio interdisciplinare di arti multimediali e produzioni audiovisive, per la promozione dell’arte e la diffusione della cultura contemporanea nelle sue diverse forme (fotografia, cinema, poesia, editoria indipendente, musica sperimentale, arti performative)”. La ragione è da scovare nei tempi, nei momenti più che negli spazi. Che cosa intendo? Tempo fa affermai lo stato di testimoni di un ritardo nei confronti dell’arte contemporanea che anticipa uno stato di ansia, come se si trattasse di rilevare una parossistica ricerca di una forma di questa nostra epoca ma, in verità, non ci stavamo accorgendo di essere stati superati in questo dalle forme date dall’arte.i In oltre, il tempo dettato dagli artisti, aveva una caratteristica evidente: separava la vita dalla consapevolezza così da permettere la visione di un’esistenza al di fuori dell’essere. Per ciò la poetica, attività creativa spontanea all’origine dell’opera d’arte, non solo serviva a comprendere un’esperienza vissuta, ma era anche capace di dare un’indicazione su come congiungere vita psichica e mondo oggettivo. Leggere, per esempio, il permanere di una sensazione come un prodotto intimo dell’essere avrebbe segnato, quindi, la continuità tra oggettività ed esistenza. L’arte della fine del XX Secolo si stava di fatto concentrando sull’arresto improvviso più che sulla dinamica evolutiva e, sebbene una parvenza di attività fosse presente, non lo era per il desiderio di novazione tipico delle avanguardie, bensì nel progetto di riavviare la fabbrica del reale. La passione degli artisti per il reale, nella cosiddetta tarda modernità, oggi s’è vaporizzata nella nuvola informatica, ha ceduto il posto a una levità non dopo aver fatto esperienza di un vuoto.ii Il vuoto del XXI Secolo è zona di sgomento, in cui l’accidente sottrae l’efficacia al progetto. É un aspetto dell’era del trauma, dei crolli. Un vuoto che si propone come spazio attivo dove quello che appare nella molteplicità delle informazioni un singulto esiziale si tramuta presto in grido disperato. Un vuoto che lascia a bocca aperta poiché imprevedibile. Questa imprevedibilità non era contemplata dal cosiddetto progetto moderno che tendenzialmente pianificava sul piano teorico la forma del futuro, oggi invece è un dato con il quale, inevitabilmente, dobbiamo fare i conti.iii L’artista contemporaneo, infatti, pur disponendo di un vasto vocabolario d’immagini offerto dalla rete è inerme innanzi al vuoto del reale. L’artista può utilizzare questa vasta quantità di immagini, del tutto scombinata rispetto al progetto moderno che invece selezionava e organizzava le immagini prevedendone una funzione. L’artista oggi sembrerebbe pronto ad assemblare una nuova realtà alla maniera dei dadaisti, occupando il vuoto del reale secondo una formula confacente alla propria finalità espressiva, ma invece rimane in attesa di una funzione che non vede se non nell’immediato riscontro degli effetti. Lo spazio PRISMA STUDIO si muove in questa direzione. Ispirato a un oggetto geometrico poliedrico, che allude alle molte possibilità di attività e prospettive di dialogo, scambi d’informazioni e idee, è un laboratorio che mira al risarcimento di una sospensione del tempo tramite due modalità operative: dare un orientamento nel deserto del reale e restituite un contattato con l’hardware. Questa strategia sfrutta il paradosso delle immagini contemporanee che provengono dalla Cloud senza contemplare minimamente in rapporto di dipendenza tra dato visivo e dato oggettivo. Ognuno di questi artisti proviene, infatti, da diversi presupposti disciplinari: la performance, la fotografia, la pittura, il video, ognuno di loro, oltre ad attuare la congiunzione tra psichico e oggettivo, cerca di cancellare l’oblio del sé e l’inconsapevolezza del corpo abolendo il tradizionale incasellamento dettato dallo stile. Ora, tornando alla motivazione che mi ha spinto a scrivere di PRISMA STUDIO, ossia il tempo, torniamo a riflettere proprio su quest’abolizione del reale e cerchiamo di inquadrare la problematica dell’artista contemporaneo, cerchiamo di definirne il comportamento. Anni fa era piuttosto complicato caratterizzare la temporalità dell’arte, poiché si riteneva che il nostro tempo non fosse quello dell’opera, oggi non è più così.iv Visualizzare i dati reali trasformandoli in immagini assolute non significa più destinare dei brani di realtà all’isolamento iconico, quindi, a una sospensione auratica permanente. Nell’era della digitalizzazione le immagini sono a discapito degli utenti che scelgono un tempo privato per ogni copia di queste immagini, un “Hic et Nunch” personale. Quest’aura di originalità personale, è una pratica di gestione di dati estesa al corpo che trasforma il vecchio tempo dell’arte in un’assoluta riconnessione con il mondo naturale e con una rinnovata metafisica. Questa riscoperta del mondo per via dello schermo avviene proprio all’insegna della scelta, momento che è sia traccia, sia tracciato dell’esistenza. Non dobbiamo però temere né la morte del soggetto, né l’annullamento del tempo reale.

L’immagine contemporanea disponibile on line, che l’artista saccheggia a man bassa, è una riproduzione di un mondo sconnesso, una riproduzione solo in parte controllabile poiché sempre sottoposta a uno sguardo altro.v Ecco cos’è differente oggi da allora (i primi anni 2000); se il tempo dell’arte in quegli anni ci sfuggiva e ci preoccupava in modo ansiogeno, ora il tempo dell’arte ci assorbe in modo confortante e ciò che era inafferrabile oggi è vicino e apportata di mano e persino ci amministra. Questa intimità ha prima trasformato narrazione della storia nell’arte in una mitologia di artisti poi li ha eletti a funzionari dei linguaggi creativi. L’opera d’arte sopravvive alla sua immagine in maniera intermittente. Più la forma si assoggetta alla comunicazione, più quest’intermittenza si affievolisce, si dirada sino a scomparire o polverizzarsi in una miriade di dati che indicizzano quella forma. L’arte, una volta uscita dalla continuità genealogica della storia dell’arte, diviene così un fatto contemporaneo e, come tale, tende ad alimentarsi della cronaca usando la disseminazione e la dissolvenza dei contenuti per schiacciare la memoria sulla contingenza. Questa falsa fuga dal mondo reale è solo un alibi per l’immaginazione.vi L’artista, che non cerca più l’isolamento auratico, sfugge al tempo dell’opera per abbracciare la mutevolezza e la complessità del mondo della comunicazione, ma non come semplice utente quanto, piuttosto, come un pirata. L’atto di pirateria è quello di rubare un’idea al flusso di notizie. Sottraendo il fatto al flusso, isolandone il significato, l’artista lo salva dall’obsolescenza cui è destinato in quanto notizia. L’arte strappa così un futuro al presente. Il destino ritrovato dalle immagini riabilita la funzione anticipatrice dell’arte e garantisce uno stato di permanenza. Quello che un tempo era inafferrabile per un ritardo di ricezione, ora si può carpire e riconoscere per la confidenza che il pubblico ha con le immagini del web. A causa della sua palese inadeguatezza al presente, l’opera d’arte oggi pretende, quindi, un’archiviazione più che una celebrazione. L’arte contemporanea, poco interessata a farsi celebrare nella storia, sembra, infatti, più attenta a fornire diverse combinazioni possibili del presente da trattenere in un futuro. Nell’assemblare questa memoria utopica, l’arte la indebolisce. Così non essendo più supporto e strumento del potere (in capolavoro, lo stile), l’arte si svincola dalla funzione di giustificazione del presente. Insomma, prima che te lo aspetti i lavori di questi artisti già sono arte. Sono opere sperimentali, nella misura in cui imboccano delle nuove metodologie che non si risolvono in un’immagine destinata a essere copia o ripetizione, adagiata su uno stile o finalizzate a un’elaborazione simbolica della realtà, diventano prove di applicazione inedite e sorprendenti. Genova in questo ha una sua storia. Importanti sperimentazioni, riuscite o fallite che siano, sono comunque rinviabili allo spirito della ricerca pura che le ha stimolate, ecco perché di questo PRISMA dobbiamo fissare non tanto la molteplicità dei piani quanto il numero degli spigoli che creano degli slittamenti sfuggenti più che delle inquadrature fisse e affermative.vii

Formule d’impianto dell’immagine contemporanea

Possiamo considerare gli artisti di questa prima rassegna di PRISMA come dei dentisti che impiantano immagini efficienti al posto di altre ormai inservibili sul meccanismo di masticazione del reale. L’attività di triturare il mondo contemporaneo, in modo da farne dei pezzetti digeribili e nutrienti, s’oppone al sistema di deglutizione indifferenziata di ciò che il mondo contemporaneo mette a disposizione. A questa similitudine, in modo decisamente più romantico, possiamo accostarne un altra che vede gli artisti come dei giardinieri, al pari dell’uomo ipotizzato da Gilles Clement, giardinieri che impiantano semi destinati a crescere sotto un’assidua curaviii. La prima similitudine non ha nulla di minaccioso e aggressivo e la seconda non deve suscitare dolci sensazioni di ristoro quanto piuttosto evocare una grande pazienza e un duro lavoro. La masticazione delle notizie, delle figure che i media forniscono, delle tesi che ascoltiamo, dei dibattiti cui, volenti o nolenti, siamo costretti ad assistere, necessita di questi impianti la cui formula è diversa caso per caso. In egual misura, paragonato al giardiniere, l’artista ne incarna le doti non solo di paziente coltivatore, ma anche, secondo una moralità ecologica, di risparmiatore. Questi due modi di impiantare, uno strumentale e militante, l’altro silente, curativo e attendista, si confanno a quell’idea di fabbricazione del futuro e di formazione di un archivio cui prima ho fato cenno.

Partiamo dalle opere di Paolo Angelosanto e Eleonora Chiesa, gli artisti che conosco meglio, la pantomima che è alla base delle loro performance sfrutta un semi travestimento da cui traspare l’ambiguità del messaggio portato avanti con linguaggi resilienti, che rispondono alla tecnologia riformulando i tempi dell’azione, ripristinando la centralità del rito. Angelosanto, per esempio, usa solitamente il titolo per creare uno slittamento di senso all’immagine di cui lui stesso interpreta il soggetto. Così mostra il disagio etico con cui l’essere umano è costretto a guadagnarsi un ruolo nella commedia nel mondo. Questo linguaggio, come d’altronde molta performance contemporanea, gioca su una fragilità sconcertante, quasi fosse l’altro volto dell’arrogante sicumera ostentata dall’uomo moderno. Eleonora Chiesa testimonia questa fragilità in un’apparente confine di dissolvenza. Eleonora con sua presenza transitoria, nel teatro quotidiano, compie atti di pirateria dell’immaginario, sovverte le relazioni governate dalla logica del potere politico, del denaro, del sesso. Anche Mary Angel Garcia riabilita la protesta di genere, riferendosi al corpo politico della donna, denuncia l’ottusità dello sguardo maschile usando l’icona di una sensualità militante. Viktorija Gedraityte impianta anche lei sue immagini nel vocabolario mediatico, ma evocando gli ex voto. La pirateria della comunicazione commerciale s’innesta sulla scelta di inquadrature che inevitabilmente diventano terreno di contaminazione. Anni fa per contaminazione s’intendeva sovente un cross over di linguaggi al fine di mostrare una immagine frutto dell’ibridazione di fonti iconografiche note di cui si rovesciava il significato originario. Oggi questo processo viene messo in atto di continuo. La scelta immediata dei contesti è possibile perché la situazione attuale è caratterizzata dall’esperienza dell’abbondanza e dal dispendio capriccioso di significati. In questa situazione far apparire il proprio (selfie) o il volto degli altri significa relegare i luoghi solamente a una funzione di sfondo scenografico cancellandone sempre più l’identità geografica. Neutralizzati dall’istanza di partecipazione al grande crogiolo narcisistico, gli spazi reali finiscono per coronare solamente una posa. Detto ciò, la fotografia del Ponte Morandi di Franca Giovanrosa è forse l’opera più problematica di questa mostra. Tratta dalla serie Città altra, l’immagine sembra appartenere a un passato remoto ma, in realtà, rimanda a un presente incombente. Questa carrellata dello sky line di Genova è tragicamente coerente con il concetto di “città del vuoto” che espressi molti anni fa da riabilitare quello sfondo che sembrava ormai destinato a fungere da cornice. E fuori cornice, come direbbero Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, nella misura in cui fugge un’inquadratura che addomestica e normalizza l’artista è privato dell’indirizzo confortante dello sguardo l’occhio contemporaneo ed è costretto ad ampliare il repertorio delle immagini al di là di quelle fornite dall’arte stessa.ix Questo limite violato è lo stimolo a trattenere dati non più vincolati e vincolanti, ossia non più legati alla logica evolutiva dell’arte e nemmeno più sottoposti a una tradizionale metodologia di interpretazione. Questo spiazzamento lo vediamo nella serigrafia di Susanna Dirty Toy per la quale dobbiamo riferirci all’iconografia del tatuaggio o della Street art. Analogamente a quanto avviene per le ricerche in rete, questa inesauribile pluralità di soggetti a diposizione dei linguaggi visivi attuali, rinnova l’idea di Aby Warburg di radunare la storia dell’arte nell’atlante Mnemnosyne; ma mentre per Warburg l’atlante era un engramma, per l’artista contemporaneo è un complesso di immagini senza memoria, immagini svincolate dal tempo e dallo spazio dalle quali estrapoliamo brani ispirati. Analogamente le figure nelle opere di Massimo Palazzi fluttuano tra segno evocativo e rappresentazione olografica. Così anche la Athena di Fumatto, si rivolge alla narrazione di un fatto reale mostrando, nella ritmica della ripetizione, un travestimento del mito. L’attributo sapienziale viene così del tutto slegato dalle tecniche tautologiche di banalizzazione dell’immagine, anzi proprio nelle singole varianti l’associazione tra particolare aggiunto e figura avvolge la notorietà del volto della dea irridendola. Così le opere di Alberto Trucco e del tatuatore-disegnatore Francesco Giovani contribuiscono ciascuno a modo suo alla messa in discussione del valore indicativo dell’immagine contemporanea. Postando il problema dal materiale alla sua applicazione figurativa. Portando fuori dal dispotismo mediatico l’opera si impone come testimonianza di una concentrazione di corpo e fatto, una promessa di ribellione che l’arte non ha smesso di inseguire. ( Marcello Carriero )

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